La Porta Del Paradiso

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ULISSE
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Un po' affannato, le sussurrò nell'orecchio:

"Ora sei veramente Diana Ceroni." E la baciò sul collo.

"Si, tesoro." Rispose Diana.

Tornò al suo posto. Attirò a se la moglie, l'accolse, di fianco, sulle sue ginocchia, come se fosse seduta su di lui. Aggiustò il suo sesso, flaccido, tra quelle splendide natiche, e s'addormentò così, con la mano sul seno rosa.

'Non dormirò tutta la notte', pensò Diana, sentendo qualcosa di estraneo dietro di lei, che la infastidiva. Prese la camicia da notte, che le era rimasta accanto, e la premette tra le gambe. Ma dopo poco il suo respiro si fece pesante.

L'indomani mattina Cesare la baciò teneramente.

"Vado a fare la doccia" -disse- "tu resta pure a poltrire nel tuo primo giorno da signora. Poi, in attesa di partire per Parigi, andrò nello studio. Raggiungimi lì, quando sei pronta. Ti farò trovare il caffè. Pranzeremo all'aeroporto. Telefona ai tuoi e salutali da parte mia."

Quando la madre rispose, dall'altra parte del filo, Diana era tranquillissima. Le assicurò che stava benissimo. Cesare era gentile e premuroso, come sempre. A una cauta ma chiara domanda, rispose che per gustare certa musica era necessario ascoltarla più volte, per cercare di comprenderla. Se si riusciva a comprenderla. Altrimenti restava solo un insieme di rumori. Più o meno gradevoli.

In seguito le cose non cambiarono molto. Si, qualche volta aveva sentito il desiderio del marito. Del resto, era giovane, sana, normalissima. L'appetito sessuale c'era. Solo che non era quella la qualità per lo sperato appagamento. E' logico che ci si possa sfamare anche la fast-food, ma alla fine non si può pretendere d'esser soddisfatti come dopo un pranzo raffinato.

Cesare aveva messo la moglie tra gli 'obblighi'. Anzi, doveva averne stabilito le cadenze, forse le aveva registrate sull'agenda.

Al sabato andavano a cena fuori, gironzolavano in auto, quasi sempre lo stesso percorso. Poi a casa. Uno sguardo al televideo, quindi a letto. Solito rito, senza varianti, nel pieno rispetto di tempi e metodi. In effetti, in quegli anni c'era stato qualche 'straordinario', ma subito compensato da più che abbondanti sospensioni di attività.

Le abitudini della casa erano trasparenti. Per questo Carmelina, servendo a tavola i tradizionali gnocchi romani, s'era rivolta a Cesare, con quella sua cadenza dialettale.

"Oggi gnocchi, professò, il resto se lo fa sabato."

"Ma io, Carmelina, non vado pazzo per la trippa. Lo sai."

"Ce lo sò, professò, ce lo sò. Peccato, perché é così bbona!"

* * *

Diana decise che era meglio vedere una video-cassetta che non andare al cine.

"Scegli tu, Roby, sono in quell'armadio."

"Preferirei che scegliessi tu, a me basta stare qui."

Erano seduti sul divano, di fronte al televisore.

Diana s'alzò, aprì l'anta dell'armadio e cominciò a leggere i titoli sul dorso delle cassette.

"Ah, questa non l'ho vista. Ma non ti sto dando un bell'esempio. E' un film vietato ai minori di 18 anni. Che ne dici?"

Intanto l'aveva messa nel registratore ed era tornata vicina a Roberto, col telecomando.

"Credo" -riprese Diana, sorridendo- "che ai nostri giorni i meno informati in materia erotica siamo proprio noi, quelli ammessi a 'tutte le visioni'. Forse per questo ci riservano tali film, per insegnarci qualcosa."

Roberto era serio.

"A parte che non mi é chiaro quel voler distinguere 'noi' e 'voi', sono del parere" -osservò- "che uno spettacolo debba essere attentamente valutato prima di classificarlo. Se situazioni e immagini si riferiscono a vicende erotiche, ma normali nel loro accadimento, il divieto di visione dovrebbe essere limitato a chi non ha ancora raggiunto un valido equilibrio emotivo. Diciamo quattordici anni, non oltre. Se, invece, si tratta di uno spettacolo pornografico, é da ritenere che un maggiorenne, specie in questi tempi, come dici tu, sia in grado di distinguere la normalità erotica dalla deviazione pornografica. Devo riconoscere, però, che certe situazioni e certe immagini, pur rappresentando la normalità, possono essere uno stimolo, così come gli aperitivi stuzzicano e aumentano l'appetito."

Diana lo guardò, un po' divertita.

"A te piacciono gli aperitivi, Roby?"

"Non mi dispiacciono" -ribattè ridendo il giovane- "ma non ne ho bisogno. L'appetito, grazie a Dio, non mi manca!"

"Vediamoci quest'appassionante storia d'amore."

Concluse Diana, spingendo il tasto 'play'.

La storia non era tanto originale: cose frequenti nella realtà.

L'amore vero, quello che travolge rompendo gli argini, é un dono. Come la fede. Beato chi sa amare ed é amato così, al di là di limiti codini e convenzionali. Ma triste chi possedendo tale dono, tale meravigliosa capacità, non ne é ricambiato in ugual modo.

Diana si identificava nella protagonista. Una donna piena di vita e di desiderio di vivere, che aveva incontrato un uomo ricco d'affetto ma senza il dono di saper amare.

Mentre la trama scorreva sul piccolo schermo, s'avvicinò a Roberto, gli si mise sottobraccio, come a chiedergli protezione e conforto, gli poggiò la testa sulla spalla. Adesso era lei ad aver bisogno del sostegno di Roby.

Poi apparve 'lui', l'amante appassionato che tutto dava e tutto pretendeva, le cui dita, le cui labbra, il cui corpo, facevano vibrare ogni fibra della protagonista, l'avvampavano di desiderio, la saziavano d'amore.Diana s'avvicinò ancor più a Roberto, e lui le mise il braccio sulla spalla, le carezzò i capelli, le sfiorò il seno. Lei gli trattenne la mano sul cuore.

"Senti come batte?"

E lui sentì, attraverso il leggero tessuto, ergersi il capezzolo, protendersi alla sua carezza, fino a quando lei, con lo sguardo velato di tristezza, quasi impaurito, gli fece cenno di no con la testa e gli allontanò la mano dal seno.

Non era più la protagonista, non poteva proseguire, come lei, nell'inebriante a voluttuoso incontro, pur sentendo in sé qualcosa che si contorceva in un'implorazione che non poteva appagare.

"A domani" disse, e s'allontanò senza neppure spegnere il televisore.

IV

Stava per andare sotto la doccia. Trillò il telefono. Era Diana.

"Buon giorno, Roby, hai riposato bene?"

"Buongiorno zia..."

"Perché zia? non sono più Diana?"

"Non lo so, non capisco niente. Ho riposato malissimo, Diana, ho cercato di dormire, di sognare, di vivere in sogno ciò che voglio. Diana, ho creduto di avere la febbre altissima..."

"Dovevi chiamarmi, tesoro, ti avrei messo le pezze bagnate sulla fronte, come facevo un tempo."

"Zia, ogni febbre ha bisogno di uno specifico rimedio per passare. Ma hai ragione, é per questo che sto per fare una doccia fredda."

"Che ne diresti, Roby, di andare a Fregene, nella nostra villa? Tu e Diana? Anche oggi é una bella giornata. Faremo una lunga chiacchierata, forse é necessaria. Indispensabile."

"Che ne diresti, zia, se me ne tornassi a casa? Subito, oggi stesso? Non credi che sia queto indispensabile?"

"No, Roby, no. Ti prego. Non lasciare Diana. Hai visto come siamo stati bene a Monte Cavo? Andiamo a Fregene. C'é la pineta. Parleremo a lungo. Dobbiamo parlare. Come una volta, ricordi? Anche Diana ha avuto una lunga notte insonne, malgrado la valeriana, tormentata da mille pensieri che avrei voluto scacciare. Sono già pronta per uscire, Roby. Ti aspetto in salotto. Faremo colazione lungo la strada. Vuoi?"

Più che una domanda era una supplica.

* * *

Roberto si fermò di colpo sulla porta del salotto.

Vicino al balcone, di spalle, c'era una ragazza: snella, coi lunghi capelli sulle spalle, con una minigonna audacissima e una giacca marrone chiaro, di pelle scamosciata. Non era lasciato nulla alla fantasia: gambe splendide, affusolate, fianchi deliziosi, proporzionati. Doveva essere molto giovane e bella. Forse un'allieva di Cesare, anche se non era quella l'ora per tali visite che, tra l'altro entravano dall'ingresso dello studio.

La donna si voltò lentamente, sorridendo.

"Diana!?"

Roberto spalancò gli occhi e restò a bocca aperta, con un' espressione incantata.

"Diana, stavo per tornare indietro, non volevo entrare. Non ti avevo riconosciuta."

Sotto la giacca di pelle, Diana indossava una camicetta di seta, noisette.

"Guarda che giornata" disse, facendogli segno di avvicinarsi al balcone.

Quando Roberto le fu accanto gli sfiorò la guancia con un rapido bacio. Un bacio amichevole, che ci si scambia per saluto.

La seguitava a guardare, sorpreso. Non era truccata. O, almeno, così sembrava. Forse, quella luce nel volto, quella pelle vellutata, quelle labbra appena lucide, erano frutto di costose creme e di sapienti cure. O forse no.

Diana prese un gianduiotto dalla scatola poggiata sul tavolo e tornò verso Roberto che aveva aperto i vetri del balcone ed era andato ad affacciarsi. Lei non uscì fuori. Dal limitare della porta-finestra, col suo caratteristico muover della testa e degli occhi, gli disse di andarle vicino. Scartato il gianduiotto, lo mise tra i denti, facendone restare metà fuori dalla bocca, offrendolo a Roberto. Lui allungò la mano per prenderlo. Gli fece cenno di no, con la testa. Gli avvicinò il cioccolatino alle labbra, sempre di più, anche quando Roberto lo aveva afferrato tra i denti. Premette le sue labbra su quelle di lui, spinse piano il gianduiotto, ma subito lo risucchiò nella sua bocca. Lo spinse di nuovo in quella di Roberto, dove andò a cercarlo ancora, con la lingua. Racchiuse le labbra di Roberto tra le sue, le succhiò avidamente, aggrappata al suo collo, carezzandogli la nuca.

Roberto, dopo un istante di sorpresa, di smarrimento, le poggiò le mani sulla gonna e la strinse a sé, quasi con violenza, come a voler trapassare l'ingombro dei vestiti, in un'eccitazione che stentava a controllare.

Diana si staccò, lentamente.

"Andiamo a Fregene" -disse- "dobbiamo parlare... non come adesso, però."

Vederla guidare, con quella parvenza di gonna, la blusetta tormentata dal vento, le dita sottili che si alternavano tra volante e cambio, fecero riflettere Roberto.

La miglior cosa da fare, l'unica, era tornare a casa. Per l'università si sarebbe trovata una scusa per giustificare una nuova scelta: Napoli.

Per Diana era certo il giuoco del momento. Aveva voluto ricordare, la zia, quando lui, bambino, la baciava sulle labbra per sentire il sapore della cioccolata.

Ma lui voleva restare. Essere vicino a Diana lo stordiva, lo esaltava, lo eccitava. Alla peggio, la 'camomilla' di Carmelina l'avrebbe calmato. Sorrise tra sé, alla battuta che gli era venuta in mente: "che tocco di ... camomilla, Carmelina!" Tirò un profondo respiro.

"Cos'é questo sospiro?" -chiese Diana- "lo sai che coeur qui soupire n'as pas ce qu'il desire?' Tu non hai quello che desideri?"

"Forse dipende da me, perché ho desideri troppo ambiziosi, non so contentarmi di quello che posso avere." Rispose Roberto.

"C'era una volta un re" -cominciò Diana- "che aveva un giardino meraviglioso, dove crescevano le mele più deliziose del mondo. Ma lui non se ne curava. A volte, distrattamente, coglieva uno di quei frutti, ma non lo gustava. Un morso e via.

Un giorno s'accorse che un suo giovane valletto sospirava, incantato, guardando con desiderio quel frutteto così negletto dal padrone.

Ehi, tu -disse il re- cosa hai da guardare? non sai che quel frutteto é mio? Inutile sospirare perché non puoi avere ciò che desideri. Se vuoi delle mele, cercale altrove, ma se preferisci stare a guardare sospirando, seguita pure.

Il giovane, però, non si dette per vinto. Un giorno, di nascosto, colse una mela, e la felicità fu tale che anche se il re se ne fosse accorto e lo avesse messo a morte non gliene sarebbe importato nulla.

Ma il re non se ne accorse.

Da quel momento, la tentazione e il desiderio del giovane furono ancora più forti, e ogni volta che era accanto al frutteto coglieva una mela.

Il re seguitava a non accorgersene, perché del frutteto non si interessava proprio. Vedeva che il giovane, ora, sospirava molto più spesso, e in cuor suo lo commiserava perché non sapeva il resto del proverbio: 'coeur qui soupire souvent, coeur content.

E così, da allora, re, giovane e frutteto, vissero felici e contenti."

"E le mele?" Chiese Roberto.

"Le mele erano ciò che il frutteto aveva, poteva e voleva dare. Per questo il frutteto era felice, forse più di tutti."

"E' una bella fiaba" -osservò Roberto- "ma é solo una fiaba."

"Ogni fiaba cela una realtà, Roby. E spesso siamo noi che desideriamo la realtà ma poi la sfuggiamo, temendola. Ti ricordi, Roby, di Diana che ti cullava, che ti regalò il primo grembiulino per l'asilo? E tu già dicesti che ero la tua dea. quando ti spiegai che il mio nome era quello di una divinità greca. Ricordi che venivo a prenderti a scuola, sempre? Che cercavo di esserti vicina con piccole cose: l'orologio con la figura di Diana cacciatrice che scoccava la freccia, il disco con la canzone 'Diana'. Ero gelosa di te come la mamma del suo bambino. Ma no, era diverso. Quando ti vedevo con le compagne di scuola ero orgogliosa di essere stata la tua prima compagna di giuochi. Quando hai conseguito la maturità ho temuto che tu ti allontanassi da me. Ho convinto Cesare, ma é stato facile, a invitarti da noi. Avrei riavuto il mio bambino, il mio pettirosso. Sentivo che ti avevo cresciuto, avevo seguito la tua vita per questo, per averti vicino.

Quando sei sceso dalla corriera, quando mi hai abbracciata, ho sentito che la favola che m'ero costruita stava crollando, scacciata dalla realtà che non avevo mai voluto ammettere.

Montecavo, ieri sera sul divano, mentre vedevamo il film, mi hanno confermato la verità: non volevo vicino il mio piccolo pettirosso, volevo te come sei adesso.

Non é vero che ho preso la valeriana per dormire. Ho voluto essere sveglia, lucida, pensare, decidere, capire quello che effettivamente voglio. E quando l'ho compreso ne sono rimasta sconvolta. Mi sento ridicola, Roberto, e infelice perché per me non c'é domani.

Ti ho provocato, questa mattina, convinta che, alla mia età, non potevo suscitare in te alcun sentimento.

Quando ho sentito come mi stringevi e la tua eccitazione, come mi hai baciata, mi é sembrato d'impazzire di gioia, anche se ho pensato che la tua era la normale e fisiologica reazione di un giovane come te."

Roberto la guardava in silenzio, mentre lei, senza distogliere gli occhi dalla strada, guidava senza fretta.

E' vero, Diana aveva quindici anni più di lui, ma non se ne era mai accorto, e tanto meno adesso. Non l'aveva mai considerata la sua mammina, Una cara zietta sì, dalla quale voleva essere coccolato, cullato. Più tardi aveva inventato mille scuse per abbracciarla, per toccarla. L'aveva spiata nella cabina, al mare, quando si cambiava, quando restava nuda. Aveva inutilmente cercato nelle sue amiche le fattezze di zia Diana. Ed era rimasto sveglio, al buio, pensando Diana e Cesare insieme, a letto. Perché Cesare era vecchio, per Diana, ma Diana era sempre giovane per lui.

Allungò la mano, la mise sulla gamba della donna, dove terminava la minigonna, stringendola appena.

"Diana, non voglio tornare a casa, non tornerò a casa, voglio stare vicino a te, con te. Ma non prendermi in giro, non prenderti giuoco di me. Ti scongiuro."

Erano al casello d'uscita. Poco dopo entrarono a Fregene. Percorsero il viale della Pineta, voltarono sul lungomare, si fermarono dinanzi a 'Villa Diana'.

Entrarono in casa.

"E' calda" -disse Roberto- "credevo di trovarla fredda e umida, data la stagione ed essendo così vicina al mare."

"Ho acceso il riscaldamento, telefonicamente, questa notte. Si comanda elettronicamente." Rispose Diana.

Era tutto in perfetto ordine.

Con voce piatta, senza calore, la donna proseguì:

"Quando non c'é nessuno, una donna del luogo viene ogni settimana ad accertarsi che tutto sia a posto e pulito e che nel frigo vi sia sempre qualcosa da mangiare. Capita, a volte, che ci si venga a passarci un pomeriggio.

Anche il caminetto dovrebbe essere preparato. Basta accenderlo"

Si avvicinò a Roberto che stava vicino al caminetto. Lo guardò negli occhi, con voce bassa gli chiese:

"Vuoi?"

Lui assentì con la testa.

Diana prese un lungo fiammifero, lo strofinò sulla grossa scatola, lo avvicinò al mucchio di carta, pigne e rametti secchi, sotto la legna. La fiamma si levò subito, cominciando a scoppiettare."

Finestre e balconi erano chiusi.

Di fronte al caminetto un comodo divano.

"Vieni" -disse Diana- "ti faccio vedere la casa.

Su questo piano. oltre il soggiorno, dove siamo, c'é la cucina, una camera da letto, un tinello, doppi servizi. La scala conduce sia al seminterrato che al piano superiore. Giù c'é il biliardo e quella che pomposamente chiamiamo la 'tavernetta', da dove si va in garage, nel quale c'é anche la barca piccola. Su ci sono altre camere da letto, uno studiolo, i servizi. Tutto qui, e adesso cominciamo il giro."

Sembrava come se in auto si fossero limitati a parlare del tempo.

Girarono tutta la casa, tenendosi per mano.

Roberto si chiedeva se stesse sognando, o se lo avesse fatto prima.

Tornarono di fronte al caminetto, nel quale la legna ardeva gagliarda.

Diana andò alla porta a vetri che dava sul patio, sollevò un po' le serrande, accostò le tende della stessa stoffa del divano.

"Credo che sia ancora presto per mangiare, ver? E poi, dovremo decidere se fare colazione qui o andare al Club."

Era evidente che non attendeva risposta.

Roberto s'era seduto sul divano.

"Alzati, Roby" -gli disse- "ti faccio vedere cosa accade."

Abbassò una leva posta a fianco del mobile. Il sedile mosse in avanti, la spalliera si sollevò e si piegò su sé stessa. Tutto si trasformò lentamente in un ampio letto, già preparato, coperto da una leggerissima coperta di lana celeste.

Diana tolse la giacca di pelle e si avvicinò al fuoco. La fiamma le illuminava il volto con riflessi dorati.

Roberto andò alle spalle. Non sapeva cosa fare. Tutti quei discorsi in auto, e adesso la fredda visita della casa, la manovra del divano, come a volerlo sorprendere per quel meccanismo quasi avveniristico. Il caminetto... Cercava di mettere ordine nei suoi pensieri, ma non era certo di sapersi dare una risposta.

Diana, senza voltarsi, tese le mani dietro, lo attirò a sé. Lui l'abbracciò, le carezzò piano il seno, sulla camicetta. Poi vi infilò timidamente una mano. Sentì il capezzolo rigido, poi il muoversi di lei che chiedeva e restituiva un contatto che la faceva fremere, la eccitava.

Diana si voltò, gli mise le braccia al collo, si alzò sulla punta dei piedi, per baciarlo, per sentire il desiderio di lui urgerle sempre più prepotentemente nel grembo, per ricambiargli quel messaggio voluttuoso. Gli sollevò la polo e gli passò le mani sul petto.

"Zia" -sussurrò Roberto- "ricordi? quand'ero bambino mi svestivi, mi mettevi a letto, e mi stavi vicina, carezzandomi."

Lei spostò la leggera coperta e lo fece sedere sul letto. Gli levò del tutto la polo, gli tolse scarpe e calzini. Abbassò la chiusura dei pantaloni, slacciò la cinta, lo fece alzare: i pantaloni si afflosciarono a terra. Lo lasciò un istante così, in piedi, finché la sua minuscola gonna e la sua blusa raggiungessero i pantaloni. Si avvicinò di nuovo a lui e gli sbottonò il boxer. Era al massimo dell'erezione, gonfio di desiderio. Lo strinse tra le mani mentre lui le faceva scivolar via il piccolo triangolo che ancora indossava. Era superbamente bella.

Lo spinse dolcemente sul letto, si chinò su di lui sfiorandogli le labbra con un capezzolo. Quando lo sentì succhiare, si avvicinò di più, gli strinse il fallo, lo carezzò delicatamente.

"Roby mio, ho sempre sognato di allattarti."

Lo ripeté più volte, premendogli il seno sulla bocca.

Lui cercò di farla sdraiare.

No, non era lui che doveva prenderla, era lei che voleva possederlo.

Gli si mise cavalcioni, sorreggendosi sulle ginocchia. Poggiò quel fallo fremente vicino al palpitare goloso del suo sesso, lo accolse con lentezza esasperante, avvolgendolo, stringendolo, mungendolo voracemente, fino a suggerne l'essenza che l'inebriava, disfacendola, sommergendola nel dolce naufragare in un mare di inimmaginata voluttà.

ULISSE
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