La Porta Del Paradiso

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ULISSE
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Roberto era restato in silenzio. Guardava la strada, il panorama, ma soprattutto le mani di Diana, ammirava la sua sicurezza, i gesti misurati. Seguiva lo svolazzare dei suoi capelli neri, cercava di scorgerne gli occhi sotto gli occhiali scuri, scendeva con lo sguardo sulle labbra rosse, appena dischiuse, sul mento perfetto, lungo la gola, sul pullover attillato, sul seno, sul grembo, sulle gambe snelle, sui piedi intenti a districarsi tra frizione, acceleratore, freno...

Era bella zia Diana. Lo era sempre stata. E gli voleva certamente bene, come gliene voleva lui. Da bambino lo conduceva alla villa, a giuocare, gli comprava il gelato. Poi, dopo sposata, quando tornava dai suoi, non mancava mai di portargli qualche regalo. Giocattoli, libri, indumenti alla moda, il giaccone di pelle, fino al 'Cartier', quello che aveva al polso, in occasione della maturità. E ne andava carezzando il cinturino.

Diana se ne accorse, guardò Roberto e sorrise.

La piazzola era un belvedere sul lago, di fronte al Palazzo Pontificio di Castelgandolfo.

Diana era appoggiata al muricciolo e guardava lontano, come lontano andava il suo pensiero. Quello era Roberto. Il bambino che aveva cullato tante volte, che aveva ritrovato sempre più grande e sempre attaccatissimo a lei. Era stato un po' il suo bambino. Quello che, poi, non aveva avuto. Forse, con un figlio non sarebbe stata più considerata sempre bambina. Sarebbe stata una mamma, non solo una 'zia'.

Roberto le era accanto, con la giacca a maglia poggiata sulle spalle. Infilò la mano nella tasca e ne tirò fuori un gianduiotto dorato. Lo scartò. Tenendolo tra le dita lo avvicinò alle labbra di Diana. Lei restò a guardare il vuoto, aprì appena la bocca, dischiuse i denti, azzannò il cioccolatino e lo tenne così. Roberto lasciò la presa, sicuro che la donna lo avrebbe mangiato. Diana scosse la testa, sporse in avanti il viso, strinse lentamente i denti, lo spezzò, me tenne tra le labbra metà e si voltò dalla parte di lui.

Il giovane sorrise, allungò la mano, prese il gianduiotto e cominciò a leccarlo, come fosse un gelato.

Lei lo guardò sorpresa, delusa.

Ad un tratto lui saltò sul muricciolo dov'era poggiata Diana.

"Scendi giù, Roberto."

Gridò, e gli tese la mano per farlo scendere, come se il ragazzo avesse avuto bisogno del suo aiuto.

Roberto le afferrò la mano e scese con un salto.

"Scusa, non volevo farti spaventare, non devi preoccuparti, zia, ho un -ottimo equilibrio..."

Diana gli teneva ancora la mano, stretta.

"Mi hai fatto quasi prendere un colpo... senti come mi batte il cuore."

Portò la mano di Roberto sul suo petto. Il cuore pulsava, forte, e aumentò i battiti.

"Scusami, zia" -e le baciò la mano- "mi scusi, vero?"

"Certo, tesoro, ma non farmi venire un infarto."

Gli si mise sottobraccio e s'avviò all'auto. Sedette al posto di guida e restò così, senza mettere in moto.

Lui era rimasto vicino allo sportello.

"T'é passato il batticuore?"

"Si e no, ma desidero restare un po' seduta. Se vuoi, seguita a guardare il paesaggio."

Girò intorno alla macchina e sedette al suo posto. Le prese la mano. Era gelida. La strofinò tra le sue.

"Come va? Fammi sentire il cuore."

Le poggiò la mano sul petto, a destra.

Lei sorrise.

"Il cuore é dall'altra parte" -spostò la mano- "ma sto meglio, grazie. Sto riprendendo calore. Non é nulla."

Girò la chiave dell'avviamento, ingranò la marcia, guardò dietro, riprese la strada.

"Mi spiace non avere la patente. So guidare, ma non credo sia prudente farlo. Te la senti?"

La guardava preoccupato.

Gli sorrise, allungò la mano e gli carezzò il volto.

"Sto bene, tesoro, sto bene. E' passato tutto."

La strada scendeva verso Nemi. Attraversarono il paese, andarono al lago, si fermarono a pochi centimetri dall'acqua.

Diana spense il motore, ma non scese.

"Vedi" -disse- "a pochi metri da qui, molti anni fa, una donna fu decapitata. Mi sembra che non riuscirono mai a scoprire l'autore, o gli autori, del delitto. Anche sul movente sono state avanzate diverse ipotesi: gelosia, passione respinta, raptus...."

Roberto la interruppe.

"Nulla, comunque, può giustificare un omicidio. Neppure la legge può uccidere un uomo. Io sono contrario alla pena di morte. Forse solo un pazzo può giungere a decapitare un essere umano."

Lo aveva detto con durezza.

Diana lo fissò. Roberto aveva parlato con fermezza, senza esitazione, dimostrando una forte personalità. Lo aveva percepito, ora lo aveva compreso chiaramente: Roberto era un uomo adulto.

Che peccato, avrebbe voluto ancora proteggerlo, evitargli i pericoli, ma le sarebbe stato ancora possibile?

Gli passò una mano sul volto, come se volesse scacciargli una brutta visione dagli occhi.

Rimise in moto, fece marcia indietro, si avviò per riattraversare il paese.

"Andiamo a Monte Cavo, c'é un delizioso ristorante. Si mangia in terrazza dalla quale si domina tutta la pianura, fino al mare. Intorno, il bosco é ancora fitto. Sul terreno ci saranno, certamente, le foglie secche, quelle che non fanno rumore quando ci camminano sopra le streghe."

Il posto era bellissimo. Roma si stendeva a perdita d'occhio. In fondo si scorgeva il mare. Diana sedeva di fronte a Roberto. Canticchiava: "l'orizzonte bacia l'onda; l'onda bacia l'orizzonte..."

Lo guardò fisso, gli disse:

"Ci sono specialità romane, ti piacciono?"

"Non sono un conoscitore in materia. Guidami tu, zia, come quando andavamo al caffè, quand'ero bambino. Ricordi?"

Lo guardava senza vederlo. Non era più Roby, il suo piccolo pettirosso, come lo chiamava. Non poteva essere Roby l'uomo che aveva di fronte, un bell'uomo, attraente per la sua giovinezza, per la sua profonda dolcezza. Un uomo forte, deciso, ma pur sempre necessitante di guida, di protezione. Le aveva detto "guidami tu". Allora poteva ancora proteggerlo! Lo guardava incantata.

"Si, Roby, ti guido io, so cosa ti piace, so tutto di te."

Alzò gli occhi per chiamare il Maitre.

"Fettuccine ai funghi porcini e saltimbocca alla romana, cannellino fresco e minerale. A me, per favore, molto poco."

L'uomo accennò un inchino e si allontanò.

Il proprietario del locale s'avvicinò al tavolo. Prese dal piccolo carrello che aveva con sé due coppe ben ghiacciate e le pose dinanzi a Diana e Roberto. Stappò una bottiglia anonima, di vetro scuro, riempì le coppe.

"Permettetemi di offrirvi l'aperitivo migliore del mondo. E' mejo de la sciampagna! Come dice la canzone, ed é vero. E' l'ideale per iniziare un pranzo avendo Roma ai propri piedi. Più e mejo de Nerone. Quest'uva, pigiata e fermentata, fa diventa' belle anche le brutte. Ma" -seguitò rivolgendosi a Roberto- "la sua bella ragazza non può diventa' ancora più bella, no non può, é 'na Dea! Alla vostra salute!"

E s'allontanò.

"A te, Roby!" Disse Diana, levando il calice.

Roberto la guardò tra il divertito e il commosso a sentire quel nome, col quale lo chiamava quand'era bambino. Alzò il bicchiere.

"A te, Diana, splendida dea!

Perché é così che devo chiamarti, visto che sei la mia ragazza, la più bella che avessi potuto sognare."

Diana s'era fatta seria. Bevve un sorso e poggiò il calice sul tavolo.

"E' stato poco felice, quell'uomo, con le sue parole;" -disse, turbata- "vorrei dire offensivo. Mi considera una tardona che rimorchia quassù la sua giovane preda."

Roberto s'alzò, le andò vicino, con la coppa in mano, si curvò su lei seduta.

"No" -disse- "é stato sincero. Ha visto la tua bellezza, é rimasto incantato dal tuo sorriso, dal tuo volto, dai tuoi occhi, dalle tue labbra. Non poteva dire altro. Tu non sembri, ma sei la ragazza di sempre. Il tempo non é trascorso, per te, e se é passato è stato per farti ancora più bella di quando andavamo al caffè della villa. Solo che allora avevo la fortuna che mi prendevi in braccio, mi stringevi al cuore, mi cullavi... Bevi con me, zia. Bevi con me, Diana, mia dea!"

Le avvicinò il calice alle labbra. Lei bevve, mentre le lacrime cadevano nel vino. Poi, Roberto girò il bicchiere, pose le sue labbra dov'era restato il segno del rossetto, e bevve a lungo.

"E' deliziosa la rugiada caduta dal cielo splendente dei tuoi occhi."

Aveva cercato di mascherare la sua tristezza, di non far trasparire quanto le rimuginava nella mente. Non desiderava nulla di quanto era stato servito. S'era fatta imboccare, come una bambina, mentre Roberto le diceva che ora toccava a lui darle da mangiare. Le chiese se voleva che le raccontasse una favola. Lei lo guardava sorridendogli stentatamente.

Entrarono nel bosco, dove le foglie secche accoglievano i loro passi con un suono sommesso.

'Les feuilles mortes'. Ne accennava il motivo, strascicando i piedi, soffrendo l'attualità di quelle parole. S'appoggiava al braccio di Roberto, come aggrappandosi alla sua unica speranza di salvezza, che pur temeva di veder lentamente svanire.

"Le foglie scricchiolano sotto i tuoi passi, Diana, perché noi sei una strega, ma una fata, la mia fata."

"Sediamo un po' qui, Roby, vuoi?"

Senza attendere risposta, sedette ai piedi d'una grossa quercia, appoggiandosi con la schiena al tronco. Tese la mano a Roberto, invitandolo a sedere vicino a lei. Roberto si sdraiò di fronte. Poggiato su un gomito la guardava con un'espressione indefinita. Allungò la mano verso quella della zia, poggiò la testa nel morbido tepore del suo grembo, s'addormentò lentamente sotto le lievi carezze della donna.

Diana gli passava la mano sui capelli, tra i capelli, guardandolo con infinita tenerezza. S'era fatta imboccare da lui, come una bambina. Come qualche volta faceva Cesare che la chiamava la 'sua bambina'. Lei, invece, voleva essere la sua donna. Quelle attenzioni, molto paterne, che erano state la principale ragione del credersi innamorata di lui, a suo tempo, ora quasi la infastidivano. Non voleva un altro padre. Ma il suo, era stato vero innamoramento? O era stata l'ammirazione, l'attrazione verso l'uomo maturo, brillante, affermato, e con un solido e sicuro avvenire? Solo che Cesare era sempre 'paterno'. Le sembrava andare a letto col padre. Una cosa che le ripugnava, la bloccava, la irritava, nauseava. E non doveva mostrarlo. Non lo meritava Cesare, che la circondava di cure e premure, che sorrideva ai 'capricci della sua bambina', alle sue ribellioni, ai suoi scatti, anche violenti. Lei si sentiva la bambola ricoperta d'oro del professor Ceroni. Bella da vedere, da ostentare. Come uno dei riconoscimenti accademici che ornavano le pareti dello studio.

Ma cosa c'entrava tutto questo con Roberto?

Aveva creduto che Roberto avrebbe potuto riempire il vuoto dovuto alla mancanza di un figlio suo, ma quando lo vide scendere dalla corriera aveva capito che così non sarebbe stato. Roberto non era più il 'piccolo Roby'.

Si chinò su di lui, sfiorandogli il volto con le labbra. Non un bacio materno. E non era stato spavento di madre quello che l'aveva invasa vedendolo salire sul muretto. Non era batticuore da spavento, il tumultuoso palpitare che aveva sentito in sé quando la mano di lui le aveva sfiorato il seno.

Percepiva il tepore di quel viso, di quel respiro. La sua lingua gli lambì le labbra, vi girò intorno, circospetta per tema di svegliarlo, di far crollare l'incantamento, salì agli occhi, scese verso l'orecchio, vi si introdusse lieve. Doveva fermarsi. Se si fosse svegliato sarebbe morta per la vergogna.

Lei con Roby.

Roby che le faceva tremare le gambe, sussultare il grembo.

Lui aprì gli occhi, sorrise.

"Scusa, mi sono addormentato. Ma mi sento sereno, sicuro, in uno stato d'animo mai provato. Sto bene con te. Sono tornato a riposare in braccio a te. L'ho sognato sempre, sai? E adesso é realtà. Grazie."

Premette la bocca nel caldo del grembo, con un bacio spontaneo che la fece fremere.

III

Roberto stava poltrendo. Carmelina gli aveva detto che poteva che poteva chiamarla per telefono. Alzò il ricevitore, premette il 9. La ragazza gli rispose subito. Certo, gli avrebbe portato il caffè entro pochi minuti.

Entrò ancheggiando. Poggiò il vassoio sul tavolino accanto al divano-letto.

"Quanto zucchero, signorino?"

"Uno, Carmelina. E non dica signorino, per favore. Mi chiami Roberto."

"Va bene, ma... me ne dia motivo..."

Girò il cucchiaino nella tazza, si avvicinò al letto del giovane che, intanto, s'era messo a sedere, col cuscino dietro le spalle.

"Mi sembra un po' grande questo letto solo per lei, vero? Ma lei sta così lontano dalla sua ragazza. A Roma, però, di ragazze ne può avere quante ne vuole, ne sono certa.

Ha visto che su questo divano c'é incisa la lettera 'D'?

Io, però, dico che per arrivare alla 'D' bisogna passare prima per la 'C'. Lei che ne pensa?

Posso farle una domanda? Lei é fedele alla sua ragazza?"

Roberto era sommerso da quella valanga di parole. Cercò di arginarla:

"Il caffè é squisito, Carmelina, eccitante, come lei. Ma voglio rispedirle la sua ultima domanda. Lei é fedele al suo ragazzo?"

La ragazza lo interruppe di colpo.

"Solo quando sto con lui, signor... Roberto. Non certo quando sono in una camera dove un bel giovane é solo in un letto troppo grande. Vede, questa é un'ora in cui posso essere chiamata, la sera, invece, e anche la notte, all'ora della camomilla, della tisana che conduce al dolce riposo, di tempo ne ho tanto. E vedrà che tisana sono io."

Uscì sculettando.

Roberto pensò che una doccia, non calda, avrebbe rimesso le cose a posto. Roma gli faceva un effetto particolare, o forse era lui ad essere malizioso, a vedere provocazioni in ogni cosa, era lui a dare ai gesti e alle parole degli altri significati che non avevano. Comunque, e in ogni caso, Carmelina era da tener presente. La ragazza aveva perfettamente compreso la sua, diciamo così, agitazione.

Anche Diana, però, aveva la sua bella parte in tutto questo. Certamente involontaria, ma avrebbe dovuto capire che a un giovane, sano, forte, robusto, che ha già per il capo le sue idee, che é già in preda alle sue naturali pulsioni, se vi aggiungi dell'altro le cose si complicano. E' come aggiungere fuoco sotto una caldaia già al massimo della pressione: o funziona la valvola o scoppia.

Diana.

Verissimo, per lei il tempo non era trascorso. Non solo per l'aspetto fisico, ma per quel suo comportarsi come quando lui era bambino. Allora gli faceva fare il bagnetto. Sorrise pensando che sarebbe stato bello se avesse voluto farglielo anche adesso. Ma tornava sempre sullo stesso argomento. Maliziosamente, quasi a voler alimentare la sua eccitazione. Ma che ci poteva fare se 'zia' Diana era quel gran pezzo di.... Anche Carmelina, però, non scherzava...

* * *

Cesare era di nuovo a Milano. Telefonò per dire che non poteva tornare. Chiedeva scusa, ma gli eventi esigevano la sua presenza in quella città.

Diana aveva alzato le spalle.

"Decideremo se andare a cine" -disse- o vedere una cassetta, qui."

* * *

Cesare era fatto così. Chiedeva scusa e proseguiva per la sua strada, incurante degli altri. Per lui c'erano solo 'obblighi' e 'divieti'. E lui osservava i suoi obblighi, diligentemente ma senza farsi coinvolgere. Asetticamente.

Durante il fidanzamento aveva accennato a Diana, con un lieve sorriso sulle labbra, di aver avuto qualche deludente storia sentimentale che, però, non aveva lasciato alcun segno in lui. Diana non ne comprese subito il senso, ma finì col capire che quelle storie, squallide, 'sentimentali' non potevano certo definirsi.

Dopo la cerimonia nuziale avevano 'salutato parenti e amici', come usa dirsi, nelle eleganti sale del Circolo. Pranzo squisito, servizio inappuntabile, in un clima calmo e sereno.

Cesare aveva chiesto di trascorrere a Roma la loro 'prima notte'. Nel loro appartamento. Certi ricordi, aveva detto, vanno consegnati ai luoghi in cui si dovrà vivere. A Diana sembrò bello, anche se trovarsi sola con un uomo, per la prima volta, sia pure suo marito, le dava un certo senso di disagio. Perché per lei, sì, era la prima volta.

Era stato tutto preparato come aveva stabilito il professore.

Il bagaglio era nell'appartamento, gli oggetti personali erano in bell'ordine. Sarebbero stati soli, fino all'indomani, all'ora della partenza per Parigi.

Diana s'era cambiata. La cena fredda era stata predisposta nella sala. Lei però, malgrado non avesse assaggiato nulla durante il pranzo, al Circolo, no voleva nulla.

Cesare era elegante e galante. Le indicò qualche bocconcino particolare, le versò lo champagne. Le carezzò spesso la 'gelida manina', come diceva. Fu pieno di attenzioni.

Diana credeva di voler bene a Cesare, forse di amarlo. Ma sentiva l'avvicinarsi di 'quel momento' con un certo timore. Non desiderava ardentemente di essere sua, come aveva letto in qualche romanzo. Non sentiva l'impero dei sensi, non percepiva il prepotente bisogno di saziare il suo grembo. Frasi lette, udite nei film, ripetute spesso mentalmente, ad occhi chiusi, che ora, però, non rispondevano ad alcuna delle sue sensazioni. Doveva, in ogni caso, andare a letto col marito, e avrebbe potuto, e dovuto, provarvi piacere. In effetti, le carezze e i baci di Cesare le piacevano. 'Vedremo il resto', concluse tra sé, e si alzò da tavola dicendo che desiderava mettersi in libertà.

"Brava" -disse Cesare- "ti attendo in salotto. Io, intanto, darò uno sguardo alle ultime notizie sul televideo."

Quando lo raggiunse, avvolta nella splendida vestaglia indossata sulla vaporosa camicia da notte, il marito stava leggendo "QB", una rivista giuridica britannica.

Cesare alzò la testa, tolse gli occhiali.

"Sei una visione incantevole. E' ciò che ho sempre sognato e desiderato per questa casa. Vieni vicino a me. Un minuto solo. Finisco di leggere questo articolo."

Gli sedette accanto. Lui le prese la mano e seguitò a leggere.

Poi fu la volta del telegiornale.

Alla fine, Cesare le si rivolse sorridendo.

"Cara, che ne dici di andare a letto?"

Si alzò dal divano, le tese la mano per aiutarla ad alzarsi, proseguì:

"Ti raggiungo subito."

E si ritirò nella sala da bagno.

Il pigiama di Cesare era celeste pallido, con delle piccole righe più scure.

Diana era a letto, le braccia nude sulla coperta, i capelli sparsi sul cuscino. Aveva spento la luce centrale e quella sul suo comodino. La camera era illuminata solo dal lume sul tavolo da notte di Cesare.

Lui le sorrise, prima di sedere sul letto. Tolse le pantofole, entrò tra le lenzuola. Con rapidi e controllati movimenti, sfilò i pantaloni e li fece cadere sul tappeto. Poggiandosi sul gomito, avvicinò la testa al viso di Diana. Con le labbra le sfiorò la bocca. Un bacio appena accennato. Le carezzò il volto, scese sulla gola, sul petto. Piano, senza fretta, carezzò il seno. Ne sentì il tepore, si soffermò appena sul capezzolo. Tornò a baciarla. Più a lungo, invitandola, con la lingua, a schiudere le labbra. La mano, intanto, era scesa lentamente, aveva sollevato il lembo della camicia da notte, vi s'era infilata sotto, risaliva sulle gambe, sul pube, su, fino al seno. Tornava in basso, sul triangolo serico che terminava tra le gambe serrate della donna. Carezzò a lungo, cercando di farsi strada, di vincere quella rigidità. Seguitava a baciarla, la invadeva con la sua grossa lingua. Le fece disserrare le gambe, entrò delicatamente, con le dita, in quel tepore che sembrava volergli resistere, carezzò la piccola protuberanza che percepiva col polpastrello. Ritirò la mano, sempre dolcemente, prese quella di Diana e la portò al suo pene. La guidò a stringerlo tra le dita. Sentì che cominciava l'erezione. Tornò a titillare la donna. Lei, intanto, abbandonato il sesso dell'uomo, era immobile. Le baciò i capezzoli, attraverso la camicia velata. L'aiutò a sfilarla del tutto. Ora la sua lingua le lambiva l'ombelico, scendeva tra le gambe, passava sul clitoride, picchiettava, con la punta, l'ingresso della vagina. Si mise tra le gambe di lei. Poggiò la punta del pene dove fino a poco prima era stata la lingua. Spinse appena. Attese una reazione che non venne. Spinse ancora. Diana strinse il lenzuolo tra le dita e si morse appena il labbro inferiore. Era entrato in lei. Dolcemente, si muoveva con cautela. Cercava di leggere qualcosa sul volto impassibile della donna. Aumentò gradualmente il ritmo, sempre più. Giacque su lei con un ultimo fremito di piacere.

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